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Il dolo dell'amministratore formale nella bancarotta fraudolenta documentale c.d. generica: tra l'abdicazione agli obblighi di vigilanza e la significativa possibilità dell'alterazione fraudolenta delle scritture contabili

Maria Chiara Mastrantonio

Con la sentenza che qui si annota, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a confrontarsi sull’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale c.d. generica in capo all’amministratore di diritto.

Come noto, l’art. 216, comma I, n. 2, R.D. 267/1942, a fronte di un’apparente unitarietà della formulazione, cela due distinte ipotesi di bancarotta documentale: una c.d. specifica e l’altra c.d. generica.

Accumunate dal medesimo oggetto del reato - per entrambe consistente nei libri o nelle altre scritture contabili – esse differiscono sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo.

Nella prima ipotesi, invero, si richiede la realizzazione di una serie di condotte alternative (sottrazione, distruzione o falsificazione, totale o parziale, delle scritture contabili) con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare un pregiudizio ai creditori.

La seconda - quella c.d. generica -, invece, postula la (mera) tenuta dei libri contabili in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari, senza prescrivere alcuna connotazione ulteriore né delle concrete modalità di condotta – che, quindi, rimangono generiche e indefinite – né dell’elemento soggettivo.

Appare altresì opportuno rappresentare che, con specifico riferimento alla fattispecie de qua, la giurisprudenza di legittimità ha assunto, oramai da tempo, un atteggiamento ben più rigoroso rispetto al passato.

In una prima fase, difatti, gli Ermellini avevano ritenuto che, una volta provata l’assenza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili, “può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita (cosiddetta "testa di legno"), atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture” (Cfr., ex pluris, Cass. pen., Sez. V, 22 giugno 2004, n. 2800, Squillante; Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2010, n. 19049, Succi; Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2013, n. 628; Cass. pen., Sez. V, 21 gennaio 2016, n. 15802).

L’affermazione di reità sulla scorta della mera qualifica ricoperta e dell’integrazione dell’elemento materiale del reato, tuttavia, veniva caldamente criticata da altro orientamento della Suprema Corte – divenuto poi prevalente – secondo cui “è necessaria la dimostrazione, non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno, attentandosi altrimenti al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale” (Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2005, n. 44293, Liberati; Cass. pen., Sez. V, 30 ottobre 2013, n. 642, Demajo; Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2018, n. 40176, Mastroeni; Cass. pen., Sez. V, 28 maggio 2018, n. 40487, Bruccoleri; Cass. pen., Sez. V, 1 marzo 2019, n. 34112, Alessio; Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2021, n. 44666).

Ed è proprio nel mancato confronto con tale parametro valutativo che si rinviene il fulcro delle doglianze avanzate dai ricorrenti avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Brescia che li riteneva colpevoli – in concorso con la sorella giudicata separatamente – dei reati di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale in relazione a due distinte società familiari dichiarate fallite.

In particolare, nel terzo motivo di ricorso, si lamentava l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’affermare la loro responsabilità penale per il solo fatto che sedessero nel consiglio di amministrazione delle società, senza considerare che costoro si occupassero esclusivamente della linea produttiva.

Ritenendo infondate le doglianze avanzate dagli imputati, la Quinta Sezione ha confermato la valenza della giurisprudenza - oramai consolidata in tema - secondo cui per la sussistenza del dolo (generico) dell'amministratore formale “non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l'abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell'alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono (Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021 Ud. (dep. 02/12/2021) Rv. 282280 - 01).

Non può non essere evidenziato come proprio il citato principio di diritto, statuito per la prima volta nella pronuncia n. 44666 del 4 novembre 2021, abbia rappresentato il più recente approdo dell’iter giurisprudenziale supra ricordato, spintosi ad indagare – finalmente non solo in via incidentale – il contenuto del dolo generico della bancarotta documentale ascritta all'amministratore di diritto.

In quella stessa pronuncia, inoltre, la Corte di legittimità evidenziava come, sebbene l'assunzione solo formale della carica costituisca un importante indizio della sussistenza del dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice, solo l'analisi delle circostanze concrete del fatto può restituire la prova della componente rappresentativa del dolo e, quindi, della consapevolezza di concorrere nella realizzazione del reato.

Ebbene, nel caso di specie, sono stati numerosi gli elementi fattuali che hanno - a parere, prima, del Giudice del merito e, poi, di quello di legittimità - corroborato la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

I ricorrenti, invero, non solo operavano quotidianamente all’interno delle società come responsabili della linea produttiva ma erano i soci di entrambe le fallite; i fratelli di colei che si assume aver assunto di fatto la gestione societaria; e, infine, i figli della destinataria di una ingente somma di denaro confluita sul suo conto corrente senza alcuna ragione giustificatrice riconducibile all’impresa che se ne era spogliata.

Con specifico riferimento alla bancarotta documentale contestata, nella sentenza impugnata si evidenziava come  “gli imputati, pur a voler ritenere che avessero delegato la gestione più propriamente amministrativa e finanziaria alla familiare […] avevano comunque il potere-dovere di verificare e controllare le scritture contabili che firmavano, la cui macroscopiche falsità - non contestate nella loro materialità - attenevano a voci di importo rilevante che non potevano sfuggire per semplice colpa al normale e doveroso controllo che incombe a carico di ciascun amministratore di società”.

Il Giudice di legittimità, dunque, ritenendo l’impostazione dalla Corte d’Appello lombarda pienamente in linea con la più recente giurisprudenza, ha affermato che “essi non erano del tutto avulsi rispetto al contesto societario né estranei agli interessi in gioco, essendo anche soci, con la conseguenza che, di là dell'assunto del rilascio di deleghe ad un soggetto che nella società a responsabilità limitata non rivestiva alcuna carica formale, non vi è spazio per una ricostruzione - avallata in buona sostanza dalla difesa - in termini di una effettiva totale abdicazione, da parte dei predetti, all'obbligo di vigilanza e controllo gravante sull'amministratore”.

In altri termini, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto irricevibili le doglianze difensive in virtù del ruolo effettivamente rivestito dai ricorrenti nelle fallite. Soggetti che - tutt’altro che mere “teste di legno prezzolate per fare gli amministratori solo sulla carta” - erano stabilmente inseriti all’interno delle società e che, dinanzi alle evidenti falsità che connotavano le scritture contabili, hanno consapevolmente deciso di non attivare i poteri-doveri di vigilanza ascritti alla loro carica sociale.

Ed ancora, per i medesimi motivi, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto parimenti non condivisibile la tesi dell'affidamento, che il ricorso pone a base delle omissioni in cui sono incorsi gli imputati, che in piena buona fede avrebbero riposto nell'operato della sorella.

La Suprema Corte, in conclusione, avallando l’operato della Corte territoriale, totalmente conforme alla giurisprudenza in tema, ha reputato il quantum di prova richiesto per l’integrazione dell’elemento soggettivo della bancarotta documentale c.d. generica pienamente raggiunto e, dunque, ha rigettato il ricorso.

Argomento: Reati fallimentari
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. V, 21 aprile 2023, n. 17165)

 

Stralcio a cura di Lorenzo Litterio

“1.3. […] La corte territoriale, […] ha innanzitutto, opportunamente, premesso che nel caso di specie non si è di fronte a dei meri amministratori solo formali (teste di legno prezzolate per fare gli amministratori solo sulla carta), essendo i ricorrenti, per un verso, anche soci di entrambe le società fallite e, per altro verso, i fratelli di colei che si assume avere assunto la gestione societaria, e i figli di […] a destinataria dell'ingente somma di denaro confluita sul suo conto corrente senza alcuna ragione giustificatrice riconducibile alla società che se ne era spogliata. […]. Sicché quanto alla bancarotta fraudolenta documentale contestata e ravvisata nel caso di specie - per avere i ricorrenti falsificato in maniera eclatante le scritture contabili, ad esempio mediante la registrazione di creditori inesistenti o di inesistenti finanziamenti, al fine di occultare le perdite di esercizio e di proseguire l'attività - la corte territoriale ribadisce che gli imputati, pur a voler ritenere che avessero delegato la gestione più propriamente amministrativa e finanziaria alla familiare assolvendo essi prevalentemente a mansioni tecnico-produttive, quali soci ed amministratori della società - sia della s.r.l. che della s.n.c. - avevano comunque il potere-dovere di verificare e controllare le scritture contabili che firmavano, la cui macroscopiche falsità - non contestate nella loro materialità - attenevano a voci di importo rilevante che non potevano sfuggire per semplice colpa al normale e doveroso controllo che incombe a carico di ciascun amministratore di società. Tale impostazione è in linea anche con la più recente giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta documentale cd. 'generica', per la sussistenza del dolo dell' amministratore solo formale non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l'abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell'alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono […], laddove nel caso di specie [continua ..]

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